Ce li ricordiamo i Subbuglio! come ci ricordiamo quel certo movimento di pop d’autore che ricercava nel suono digitale un ponte tra passato e futuro. Come a dire: un modo “retrò” di pensare al domani. Non manca di queste caratteristiche, anzi forse le amplifica Roberto Grossi con il suo primo disco personale dal titolo “Le stelle della sera” che tanto devono a Mango e a tantissimi modi inglesi di pensare al suono. Tra le featuring anche Paolo Archetti Maestri degli Yo Yo Mundi.

Quando ascolto un pop digitale che tanto mi porta a sognare, penso sempre al glam berlinese o quello inglese anni ’80. E tu?
In questo album ho cercato di realizzare arrangiamenti e sperimentazioni elettroniche ma senza avere un preciso modello di riferimento. Ho sempre ascoltato musica di ogni tipo, ma se devo rispondere alla tua domanda dicendo al volo tre nomi che mi vengono in mente, ti dico Depeche Mode, Massive Attack e Subsonica, anche ne non sono sicuro che si possa trovare qualche loro traccia evidente nel mio album.

C’è anche l’impegno politico, anzi sociale e civile dentro questo disco. Pensi sia un “dovere” per il cantautore moderno? Oppure pensi sia una peculiarità del tempo passato?
Credo che ognuno deve esprimere genuinamente quello che ha dentro, senza ricercare a tavolino stili o argomenti da proporre. Io sono da sempre angosciato dall’indifferenza rispetto a quello che ci succede intorno, alle ingiustizie e alle guerre, e oggi in particolare sono angosciato da quello che succede in Palestina. Detto ciò credo che oggi artisti che hanno a disposizione una grande platea di ascolto dovrebbero esporsi e prendere posizione su tragedie come quella in corso a Gaza.

Come hai scritto queste melodie che spesso trovano soluzioni assai poco scontate? Come nascono i primi brani di Roberto Grossi?
È una domanda difficile! Non ho un metodo preciso, non costruisco le canzoni a tavolino. Le melodie mi arrivano in mente spontaneamente, in concomitanza di particolari stati emotivi o della forte necessità di raccontare o esprimere qualcosa. Spesso la melodia arriva associata anche ad alcune parole che mi aiutano a fissarne la metrica ma anche a iniziare a descrivere l’emozione che l’ha generata. Talvolta queste prime parole danno anche origine al testo definitivo. Poi passo a definire l’armonia, spesso utilizzando la chitarra.

E dal lavoro in band a quello solista? Cosa manca e cosa hai acquistato?
Lavorare in band è un’esperienza musicale e umana molto particolare. Quando portavo una mia nuova canzone in sala prove non sapevo mai cosa sarebbe successo: spesso i brani prendevano direzioni completamente differenti da quello che avevo immaginato. Dico questo in senso positivo: la contaminazione, il sovrapporsi di gusti e sensibilità musicali differenti è sempre un arricchimento. In questo lavoro da solista ho cercato in qualche modo di salvaguardare questo aspetto, coinvolgendo molti musicisti anche nella fase di arrangiamento dei brani, a partire da Helle che ha dato il contributo e l’impronta maggiore a questo album. Alla fine lavorare da soli semplifica sicuramente gli aspetti organizzativi e personalizza molto di più le scelte artistiche ma, ripeto, ho cercato comunque di non chiudermi in me stesso e di raccogliere il più possibile stimoli, spunti e contributi da altri musicisti.

Il lavoro con Helle ha portato suoni e forme che non stavi contemplando? Perché hai scelto lei per seguire una direzione artistica?
Avevo il desiderio di dare a questo album un sound contemporaneo e che esplorasse nuovi territori rispetto a quelli che avevo fin’ora percorso. Ho conosciuto Helle al MEI di Faenza tre anni fa e ascoltando il suo album “Disonore” sono rimasto colpito dal suo uso dell’elettronica e dal suo gusto negli arrangiamenti. Gli ho proposto di sperimentare qualcosa sui mie brani ed è nata la collaborazione che ha portato a questo album. Lavorare con un talento assoluto della nuova musica italiana è stata un’esperienza artistica ed emotiva assolutamente straordinaria.